Madre migrante - Dorothea Lange
Chissà se John Steinbeck ha mai conosciuto Dorothea Lange? Ho recentemente riletto “Furore”, il romanzo considerato uno dei testi sacri della letteratura americana. Pubblicato nel 1939, il libro racconta la storia della famiglia Joad costretta, a causa della grande depressione del 1929, a migrare verso l’ovest, dall’Oklaoma alla California in cerca di migliori condizioni di vita. Un’epopea comune a moltissime famiglie che, per sopravvivere, lasciarono le loro povere case e il loro lavoro nei campi. Ieri i contadini migranti raccontati da Steinbeck, oggi le carrette del mare e il loro carico disperazione. La storia non cambia, solo variazioni sul tema. Volti, luoghi, miseria che negli anni che vanno dal ‘35 al ‘39 sono stati documentati dalla fotografa Dorothea Lange. Incaricata dall’agenzia governativa FSA (Farm Security Administration), percorse in lungo e in largo le strade e gli accampamenti dei migranti, restituendoci, grazie alle sue immagini, il quadro fedele di un dramma umanitario consumato nella terra del grande sogno americano. “Madre migrante” è probabilmente l’opera più famosa della fotografa. Una vera e propria icona. La rappresentazione simbolica del dolore e della dignità, che solo una madre con i suoi bambini può incarnare. La foto ritrae una donna di 32 anni, madre di sette figli, una delle tante donne con bambini al seguito, coinvolte in questa grande migrazione. Nel volto e nello sguardo della protagonista, si concentra la sofferenza e la tragedia. Un viso scavato dalla fame e dalle mille prove al quale è stato sottoposto. Due dei tre bambini si nascondono dietro di lei, ultimo baluardo prima dell’abisso. Gli occhi della donna riescono ancora a guardare lontano, in un lampo di fierezza, sembrano farci intravedere una via d’uscita, una possibilità di riscatto. Un’ultima occasione per affermare il diritto ad una vita migliore, per lei, per i suoi figli. Per il bambino che porta in braccio, il cui volto quasi interamente coperto, ci risparmia la vista di ciò che non vorremmo mai vedere. Dal punto di vista compositivo la foto è divisa in tre fasce verticali con al centro la madre. Il braccio e la mano lievemente appoggiata al mento rafforzano la verticalità e fanno convergere lo sguardo dell’osservatore sulla donna e sui suoi occhi. L’immagine è per lo più occupata dalle figure umane. Lo sfondo lascia solo intuire l’interno di una tenda. Commentando questa immagine Dorothea Lange disse: “Appena la vidi mi avvicinai a lei, come attratta da una calamita. Non ricordo come riuscii a spiegarle la mia presenza, o la mia macchina fotografica, ma ricordo che non mi fece domande. Scattai le foto, avvicinandomi sempre di più dalla stessa direzione. Non le chiesi né il suo nome né la sua storia”.
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