A partire dagli anni sessanta del novecento diviene
centrale la dimensione mentale dell’opera d’arte. Si assiste alla scomparsa
dell’oggetto fisico dalla rappresentazione, riprendendo il processo di
autonomizzazione dell’arte già avviato dalle avanguardie dei primi del
novecento. Il concetto, il significato segnano la loro superiorità nei
confronti del significante, dell’oggetto rappresentato.
Duane Michals scatta le sue prime
fotografie nel 1958 durante un viaggio a Mosca. Negli anni successivi collabora
con riviste di moda e di attualità, affiancando alla sua attività professionale
quella di ricerca personale e individuazione di nuove modalità espressive. Non
crede nella possibilità della fotografia di rappresentare la realtà e la
utilizza per visualizzare il suo universo inconcreto ed esistenziale, fatto di
sogni, fantasie e desideri. All’inizio degli anni sessanta realizza una serie
di ritratti di René Magritte, con i quali riesce a cogliere l’essenza del mondo
rappresentato dall’artista surrealista.
La singola immagine diviene, per il
fotografo statunitense, uno spazio angusto per delineare idee e concetti
assolutamente personali. Inizia così ad utilizzare le sequenze, vere e proprie
storie fotografiche composte da tre fino a quindici foto.
“Non ero soddisfatto del fotogramma, perché non potevo mai
deviarlo verso un messaggio più ampio. In una sequenza la somma delle immagini
fa capire quello che una singola fotografia non è in grado di esprimere”
Il sistema visivo utilizzato da
questo fotografo-artista appare in tutta la sua complessità nelle serie “The fallen angel”, “The human condition” e “The
old man kills the minotaur”, per arrivare fino agli estremi di un’opera
senza fotografia “A Failed Attempt to
Photograph Reality”.
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