"I
social media danno diritto di parola a legioni di imbecilli che prima parlavano
solo al bar dopo un bicchiere di vino, senza danneggiare la collettività”.
Questa frase di Umberto Eco, tratta da un discorso ben più ampio, è stata nei giorni scorsi, al centro di grandi polemiche sulla rete e non solo. Aggiungerei che i social media danno anche diritto di pubblicare immagini a legioni di imbecilli fotografi che prima semplicemente non scattavano fotografie.
Questa frase di Umberto Eco, tratta da un discorso ben più ampio, è stata nei giorni scorsi, al centro di grandi polemiche sulla rete e non solo. Aggiungerei che i social media danno anche diritto di pubblicare immagini a legioni di imbecilli fotografi che prima semplicemente non scattavano fotografie.
Non si tratta di un discorso elitario. In questo caso il danno per la collettività è causato da un impoverimento della visione. Nel calderone globale della fotografia sulla rete, il rischio è quello di non riuscire più a guardare, a scegliere un discorso fotografico valido. Tutto è sopraffatto da un rumore di fondo fatto di fotografie tratte dal flusso della vita senza un perché, senza un senso che ne legittimi l’esistenza. L’estetica stessa dell’immagine risulta imbarbarita dalla presenza di visioni penalizzanti, capaci con la loro massiva presenza di inquinare pian piano lo sguardo e abbassare drasticamente l’asticella della nostra percezione critica e qualitativa. Tutto viene velocemente inquadrato nello smartphone e caricato sui social, dato in pasto all’occhio sempre più pigro degli spettatori.
Se tutto può essere fotografato e
condiviso con il mondo, allora forse l’unico modo che abbiamo per difenderci da
questa invasione è quello di non scattare. Tornare a fotografare con il
contagocce o se proprio non possiamo fare a meno di “premere il grilletto”, che
almeno sia abbia la forza di tenere le foto lontane dalla rete e non provocare
feriti e vittime di immagini che non avrebbero mai dovuto vedere la luce.